Tomaso Arcamone e il suo “Discorso sopra l’imbrigliare i cavalli”

Cette communication a été enregistrée dans le cadre du troisième colloque de la Bibliothèque Mondiale du Cheval qui s’est tenu à le 19 septembre 2022 au siège du Comité olympique italien (Rome).

Le texte inédit de Tomaso Arcamone

Mario GENNERO présente la communication de Patrizia ARQUINT, docteur-chercheuse en philologie romane et spécialiste des textes anciens relatifs au cheval, portant sur le texte inédit de Tomaso Arcamone, Discorso sopra l’imbrigliare i cavalli (XVIIe siècle).

La grande période des traités d’équitation italiens de la seconde moitié du XVIe siècle, inaugurée en 1550 par les Ordini di cavalcare de Federico Grisone (1550) et culminant à la fin du siècle avec le Cavallo frenato de Pirro Antonio Ferraro (1602), suivi dans la première décennies du XVIIe siècle, par des auteurs comme Alessandro Massari (ou Massari Malatesta), Giovanni di Gamboa, Lorenzino Palmieri, Giovanni Paolo d’Aquino, etc. Et nous pourrions ajouter d’autres auteurs dont les œuvres n’ont jamais été imprimées mais dont on a conservé les manuscrits comme Alfonso Ruggieri, Lelio Cinquini, Valerio Piccardini. Un auteur très peu connu appartient également à cette période féconde, Giovanni Tomaso Arcamone, « gentihomme de la ville de Bari et de la ville de Naples », dont nous connaissons une estampe et un manuscrit. Le manuscrit est conservé à la Bibliothèque nationale de Bari. Il s’intitule Discorso sopra l’imbrigliare i cavalli, et traite de la manière de choisir une bonne bride pour un cheval.

——-

Le texte de l’intervention en italien:

Tomaso Arcamone e il suo “Discorso sopra l’imbrigliare i cavalli” (sec. XVII) *

Alla grande stagione dei trattati di equitazione italiani della seconda metà del Cinque­cento, inaugurata nel 1550 dagli Ordini di cavalcare di Federico Grisone e culminata alla fine del secolo nel Cavallo frenato di Pirro Antonio Ferraro [1], fanno seguito, nei primi decenni del secolo XVII, scrittori di cose equestri meno insigni dei sopra citati, ma nondimeno degni di nota: ricordiamo Alessandro Massari (o Massari Malatesta), Giovanni di Gamboa, Lorenzino Palmieri, Giovanni Paolo d’Aquino [2]. E potremmo aggiungere altri autori le cui opere non sono mai andate a stampa ma ci arrivano manoscritte: Alfonso Ruggieri, Lelio Cinquini, Valerio Piccardini [3].

A questa stagione appartiene anche un autore pochissimo noto, Giovanni Tomaso Arcamone, “gentilhuomo della città di Bari e nella città di Napoli”, del quale conosciamo una stampa e un manoscritto.

Il manoscritto è conservato alla Biblioteca Nazionale di Bari [4]. Si intitola Discorso sopra l’imbrigliare cavalli, ovvero è un trattato sul come scegliere la briglia (noi oggi diremmo il morso) appropriata per ogni cavallo.

La stampa, ugualmente intitolata Discorso sopra l’imbrigliare cavalli, dovrebbe vertere sullo stesso argomento: il condizionale dipende dal fatto che, al momento, di questa stampa non si conoscono esemplari consultabili.

Ma andiamo con ordine.

Nel 1875 Camillo Minieri Riccio, archivista e storico napoletano, nelle sue Notizie biografiche e bibliografiche degli scrittori napoletani fioriti nel secolo XVII, fornisce questa telegrafica voce: “Arcamone (Gio. Tommaso) n[acque] a Bari e s[crisse] Discorso sopra l’imbrigliare cavalli, Trani 1627 in-4°” [5].

Di questa stampa non si trova riscontro nei grandi repertori bibliografici anteriori al Minieri Riccio: il Trésor del Graesse, il Manuel del Brunet [6]. Dunque il Minieri Riccio, per segnalare l’opera, deve averne esaminato un esemplare.

La stampa dell’Arcamone si trova citata in repertori bibliografici successivi, che però riprendono l’indicazione dal Minieri Riccio [7]. Nessuno di questi segnala l’esistenza di esemplari.

Si torna a parlare dell’Arcamone nel 1992, in un saggio di Grazia Distaso sulla storia letteraria di Bari.

In questa sintesi non vanno dimenticate opere più tecniche quali il Discorso sopra l’imbrigliar cavalli (1627) del Patrizio barese Giovanni Tommaso Arcamone, che nasceva sulla falsariga della trattatistica in voga nel centro napoletano (del napoletano Pirro Antonio Ferraro è l’opera Cavallo frenato, Napoli 1602) e che certo rispondeva, nel suo stile secco e puntuale, alle esigenze di nobile svago del ceto feudale, cui andavano le simpatie dell’Arcamone e per la sua stessa appartenenza al patriziato e per quei sottili legami che, ora come in pieno Seicento, continuavano a sussistere in Terra di Bari fra classe intellettuale e potere feudale [8].

A corredo di questo paragrafo, Grazia Distaso fornisce la segnatura del manoscritto di Bari [9], che fin qui nessuno aveva citato. La data del 1627, però dev’essere mutuata dal Minieri Riccio o da qualcuno dei suoi continuatori, dal momento che il manoscritto di Bari non porta indicazioni di data. Grazia Distaso non ce ne fa un resoconto, però, verosimilmente indirizzata dal Minieri Riccio, deve aver cercato la stampa – invano [10]. Ha trovato il mano­scritto, che ha esaminato: vedasi il riferimento allo “stile secco e puntuale” e l’accostamento al Cavallo frenato di Pirro Antonio Ferraro [11]. Per il resto, l’ulteriore inquadramento della figura di Giovanni Tomaso (o Tommaso che dir si voglia) Arcamone – le “esigenze di nobile svago del ceto feudale, cui andavano le simpatie dell’Arcamone” etc. – dipende dalle nozioni dell’autrice sulla generale temperie culturale e sociale del tempo e del luogo, non da particolari informazioni sull’Arcamone lui medesimo.

Dunque, a questa altezza temporale – il 1992 del saggio di Grazia Distaso -, non si conosce un esemplare della stampa dell’Arcamone, tanto che si potrebbe anche dubitare che la menzione del Minieri Riccio possa essere – succede – frutto di una svista.

Nel 1997, però, arriva una testimonianza decisiva.

Lucio Lami, in un articolo bibliografico intitolato L’arte equestre, invenzione italiana tipicamente rinascimentale, scrive:

Nello stesso periodo [primi decenni del sec. XVII] operava, a Napoli come a Bari, il nobiluomo Tomaso Arcamone di cui non c’è traccia, non dico nelle storie dell’arte equestre, ma neppure negli studi bibliografici. La copia che ho tra le mani porta il titolo: Discorso sopra l’imbrigliare cavalli e venne stampata in Trani, nella stamperia di Lorenzo Valerij nel 1627 [12].

Ora, l’articolo di Lucio Lami contiene qualche svista sulle biografie dei cavallerizzi e sul contenuto delle loro opere, errori dimostrabilmente ereditati da storie dell’equitazione non tanto accurate. In materia di bibliografia, però, il Lami era un esperto collezionista, e per lo più scriveva di libri che possedeva: della stampa dell’Arcamone dice esplicitamente di avere una copia, anzi di averla “tra le mani” mentre ne scrive.

Dunque il Lami certifica sia l’esistenza che la rarità della stampa, e conferma i dati forniti dal Minieri Riccio (a lui evidentemente non noto, se parla di una totale assenza del­l’Arcamone dagli studi bibliografici): il titolo ( Discorso sopra l’imbrigliare cavalli ), il luogo di stampa (Trani) e la data (1627), aggiungendovi un dato che nel Minieri Riccio non c’era, ossia il nome dello stampatore: Lorenzo Valeri (scritto anche Valerii), che fu – si conferma – tipografo a Trani attivo nel periodo che ci interessa [13].

Veniale ci sembra il fatto che a Giovanni (o, abbreviato, Gio.) Tomaso Arcamone (così nominato nel Minieri Riccio, nella Distaso e nel manoscritto) ci si riferisca, nel saggio del Lami come a “Tomaso Arcamone”: può darsi che la caduta del “Giovanni” (o “Giovan”, a scelta) sia stata propiziata dal fatto che nel frontespizio il primo nome dell’Arcamone fosse indicato con l’abbreviazione “Gio.”, il che l’ha reso meno visibile.

Interessante, invece, che il Lami dica che l’Arcamone “operava a Napoli come a Bari”. Stante che, come conferma lo stesso Lami, l’Arcamone è universalmente sconosciuto, il Lami avrà desunto questa notizia dalla stampa di sua proprietà, verosimilmente dal frontespizio dove, secondo l’uso dell’epoca, il nome dell’autore era accompagnato dalle qualifiche (per esempio “gentilhuomo napoletano” il Grisone, “gentilhuomo ferrarese” il Fiaschi; “napoli­tano, cavallerizzo della Maestà Cattolica di Filippo II Re di Spagna N[ostro] S[ignore] nella Real Cavallerizza di Napoli” Pirro Antonio Ferraro, etc. [14])

Perciò, è verosimile che il frontespizio della stampa avesse tenore simile all’intestazione del manoscritto, che è: “Discorso sopra l’imbrigliare cavalli composto da Gio. Tomaso Arca­mone gentilhuomo della città di Bari e nella città di Napoli” [15].

Purtroppo, scomparso Lucio Lami nel 2014, di questa stampa si sono perse le tracce.

In quanto poi al dato nuovo fornitoci dal Lami, il nome dello stampatore Lorenzo Valeri, neppure qui si va lontano. C’è uno studio di Giovanni Beltrani dedicato alla produzione di Lorenzo Valeri (1892) [16], ma la stampa dell’Arcamone gli è ignota. Ignota è anche a successivi aggiornamenti, e soprattutto è attualmente ignota a Luciano Carcereri, esperto di edizioni pugliesi in generale e dello stampatore Valeri in particolare [17].

Nonostante la sua elusività, non pensiamo che sia lecito dubitare dell’esistenza di questo libro. Grazie al World Wide Web, abbiamo un’altra traccia – non recente ma sostanziosa – dell’esistenza fisica di un esemplare della stampa dell’Arcamone. Nel sito della nobile famiglia d’Alessandro, a proposito della tradizione cavalleresca del casato, è stata pubblicata una lista dei titoli di argomento equestre contenuti in un inventario di fine XVII sec. dei libri presenti al castello di Pescolanciano [18].

Si tratta di una quindicina di titoli, tutte le opere autorevoli dei secoli XVI e XVII (Grisone, Corte, Caracciolo, Pirro Antonio Ferraro etc. [19]), più l’Arcamone, “Discorso sopra l’imbrigliare i cavalli, Trani 1627”, senza indicazione di stampatore.

Purtroppo il libro non è più nella disposizione della famiglia [20].

Nessun risultato nemmeno dall’Archivio di Stato di Isernia, dove è conservato l’archivio privato dei d’Alessandro duchi di Pescolanciano [21].

E infine, un ultimo tentativo. In chi abbia una qualche pratica di antica letteratura equestre, la menzione del casato d’Alessandro e del castello di Pescolanciano (o Peschio­lanciano), avrà perentoriamente richiamato alla memoria Giuseppe d’Alessandro duca di Pescolanciano autore della Pietra paragone dei cavalieri (1711) [22]. Nella Pietra paragone, l’autore cita le fonti di cui si è servito per scrivere il capitolo sulle imboccature: vi sono le autorità che ci si possono aspettare (Grisone, Fiaschi, Pirro Antonio Ferraro…), ma non l’Arcamone [23].

In conclusione, nonostante campagne di ricerca periodicamente intraprese da vari studiosi (l’ultimo prima d’ora è stato Pietro Sisto [24] ), nessun esemplare della stampa di Giovanni To­maso Arcamone è al momento reperibile.

Conosciamo il titolo ( Discorso sopra l’imbrigliare i cavalli ), la data (1627), il luogo di stampa (Trani), lo stampatore (Lorenzo Valeri), il formato (in-quarto). Il nome dello stam­patore ci è tramandato dal solo Lucio Lami, il formato della stampa dal solo Camillo Minieri Riccio. Ambedue – sicuramente il Lami e molto verosimilmente il Minieri Riccio – hanno visto copie della stampa.

Non è impossibile che il libro ricompaia: stiamo all’erta e speriamo in un colpo di fortuna.

Il manoscritto di Bari, però, è a disposizione ed è consultabile anche on-line [25].

Come già sappiamo, il testo contenuto nel manoscritto e la stampa hanno lo stesso titolo. Hanno anche lo stesso testo? A questo proposito, bisogna tenere ben presente una cosa: noi non sappiamo nulla dei rapporti tra stampa e manoscritto. In particolare non sappiamo se il testo della stampa corrisponda (del tutto? in parte?) a quello del manoscritto: confronti e analisi sono rinviati a un auspicato riaffioramento della stampa.

Per ora, dunque, leggiamo il manoscritto. Comincia così:

Nell’arte nobilissima del cavalcare tanto professata da grandi et invitti cavallieri, non vi è cosa, al commun parere, di maggior difficultà et importanza quanto l’imbrigliar bene il cavallo, acciò habbia freno conveniente alla sua qualità e bocca, rendendosi il buon destriere per mezzo di quello prontis­simo in un sol cenno al suo cavalliere […]. Cose tutte necessarie, non solo nelle città per uso civile, ma necessarijssime nelle giostre e torniamenti, et anco nelle scaramuzze e giornate campali per defentione de’ stati e della religione cristiana [26].

Il codice è di piccole dimensioni (mm 195×140). Ha 63 carte delle quali una è occupata dall’intestazione e tre sono bianche: dunque in tutto 118 facciate di scrittura, stilate in un corsivo, ben leggibile, sicuramente posteriore all’epoca dell’Arcamone (Luciano Carcereri lo data “presumibilmente di mano tardo settecentesca” [27] : perciò – per inciso – non può essere autografo dell’Arcamone).

Un testo breve, dunque, ma compiuto e strutturato (non, cioè, un primo getto di qualcosa poi perfezionato o abbandonato). Come ha un conveniente esordio, così ha una conveniente conclusione:

Qui finiscono le regole dell’imbrigliare, non perché qui finiscono esse, essendo quasi innumerabili, ma per non ponervi in confusione m’è apparso di qui finire, lasciando la cura ad altri elevati ingegni di scriverne più a pieno e supplire alli miei mancamenti, havendo desiderato parlarne chiaro e con bre­vità per farvene capace con l’aiuto del Signore dal quale proviene ogni gratia, concedendola a quelli che con humile e devoto cuore alla sua Divina Maestà la richiedono come fonte d’ogni bene [28].

Ma soprattutto, oltre ad essere convenientemente iniziato e concluso, il testo ha una ben precisa struttura in quattro parti, che l’Arcamone stesso, all’atto di tirare le fila prima della quarta parte, descrive così (inseriamo dei numeri romani per evidenziare le quattro parti):

[I] Havendovi trattato insino al presente sopra la qualità delle bocche de cavalli con loro particolarità che le migliorano e peggiorano, [II] havendovi detto gl’effetti cattivi che si causano dalle parti non buone et il modo d’avvertersene e conoscere la causa d’essi, [III] havendovi anco discorso a llungo sopra le diversità dei cavezzoni e briglie con tutte le particolarità loro che facilmente si ponno usare senza oltraggio del cavallo […], [IV] al presente mi pare conveniente dovervi raggionare con brevità e quasi in epilogo sopra il modo ch’è da tenersi in avvalervi d’esse e più dell’una che dell’altra secondo la necessità che ne havrete [29].

Vediamo dunque in dettaglio il contenuto.

Nella parte I si tratta delle qualità anatomiche delle bocche dei cavalli: “per imbrigliar bene il vostro cavallo e per arrivare al desiato fine, bisogna haver consideratione alle buone e male qualità della bocca del cavallo per dargli rimedio con la vera arte, e supplire alli man­camenti de la natura in tutto quello si potrà” [30].

Segni e qualità di buona bocca di cavallo […] havrà quella né picciola né grande fuor di modo. Le barre dove appoggia l’inboccatura né sottili né delicate, né alte né grosse né carnute et incallite. Saranno larghe l’una dall’altra, et che tengano del mediocre tra tutte le sudette qualità. Et anco siano di color vermiglio più che bianche. Vuol havere li scaglioni tondi e bassi vicino li denti de la parte di sotto, quelli eguali dritti che non piegano né in dentro né fuori la bocca. La lingua non sarà né grossa né molto sottile né lunga […]. Le labre non saranno grosse né molto sottili [31].

E così via.

Al contrario, la “mala bocca di cavallo”

sarà quella piccola, overo assai grande e squarciata. Le barre alte, grosse, overo sottili e delicate, ristrette insieme, e quelle saranno più tosto bianche che vermiglie. Ancora potranno essere carnose et incallite. Li scaglioni lunghi, aguzzi, posti più in alto dell’ordinario, et alle volte piegaranno in fuori verso le labri, overo in dentro verso la lingua, la quale sarà lunga e grossa, overo assai sottile e serpentina […], Le labra grosse coprendosi sotto quelle le barre [32].

Eccetera.

Nella parte II si passano in rassegna le difese e le loro possibile cause: “bisognarà ben avvertire in che parte pecca il cavallo, e che cosa l’impedisce per non imbrigliarsi bene, facendolo trottare, galoppare e correre inanzi, vederlo e considerarlo bene nel parare, donde nasce la sua difensione” [33].

Per esempio, “se si coprirà con le labra le sue barre, non facendo lavorare l’inboccatura sopra quelle al suo debito luoco, la difensione nascerà da esse labra, il che si dice far piumaccioli” [34].

Questa difesa del far piumaccioli, ovvero del tirare le labbra dentro la bocca interpo­nendole tra barre e imboccatura [35], è molto trattata nei manuali dell’epoca (si vede che il problema era frequente). Poteva essere propiziata, tra l’altro, dalla conformazione delle labbra del cavallo: e infatti, nella parte I dell’Arcamone avevamo trovato, tra le caratteristiche anatomiche sfavorevoli, “le labra grosse, coprendosi [il cavallo] sotto quelle le barre” [36].

Nella parte III si presentano i vari modelli di capezzoni e di briglie, più altri elementi del finimento della testa del cavallo, indicando per ciascuno di essi le difese a cui si applicano, quelle difese introdotte nella parte II.

Per esempio, questo era un modello di briglia di largo uso:

il melone serve per un cavallo di buona bocca, ma che quella sia alquanto grandetta, et si caricasse più sopra la mano; e facendo [il cavallo] un po’ di piumaccioli, con un falletto fra la guardia et il mellone dissarmarà le labra, facendoli lavorare più il melone sopra le barre [37].

A questo punto un lettore moderno potrebbe sentire il bisogno di una figura per orientarsi fra i termini tecnici. E l’editore del testo deve domandarsi: il testo originale (quello uscito dallo scrittoio dell’Arcamone, per intendersi, il quale, come già detto, non può essere il manoscritto che stiamo leggendo) aveva o prevedeva di avere delle figure? Riteniamo di no. L’Arcamone stesso dice che la sua opera è rivolta a “persone intendenti dell’arte e che habbiano cognitione de le briglie, loro nomi e particolarità” [38]. E in effetti, a questa altezza temporale (primi decenni del XVII secolo), chi scriveva un trattato sulle briglie poteva anche risparmiarsi la fatica di corredarlo di figure, e nondimeno essere comprensibile agli esperti: i grandi trattati della seconda metà del XVI secolo – gli Ordini di cavalcare di Federico Grisone (1550), il Trattato dell’imbrigliare di Cesare Fiaschi (1556), e infine il Cavallo frenato di Pirro Antonio Ferraro (1602) [39], tutti best sellers e tutti ben corredati di figure -, avevano in un certo modo fissato la materia e la relativa terminologia.

Perciò qui ci limitiamo a ragguagli lessicali minimi, rinviando chi volesse approfondire alle opere appena citate. Il melone è, per metonimia, una briglia che nell’imboccatura ha, destinati ad agire sulle barre del cavallo, due meloni, ovvero due elementi di forma tondeggiante o leggermente allungata come il frutto da cui prendono il nome. Il falletto è un ‘anelletto’ che, nella fattispecie, infilato nell’imboccatura all’estremità più esterna (cioè lato guardia), impedisce che il labbro del cavallo si infili tra barra e melone, cioè impedisce che il cavallo faccia piumaccioli.

Dei piumaccioli s’è già detto, e s’è detto anche dell’ampiezza con cui il tema viene trattato nella letteratura tecnica dell’epoca. Un’azione di contrasto ai piumaccioli sarà attribuita dall’Arcamone anche ad altre briglie: alla scaccia con un profilo da la parte di sotto, all’ olivetta, al campanello, al pero, alla scaccia a bastonetto, tra le quali briglie andrà scelta l’una o l’altra a seconda delle altre caratteristiche buone o cattive del cavallo. Anche segnala come utili contro i piumaccioli i peri e campanelli riversi, o i peri e campanelli doppi, il campanello fallito e l’ imperiale, che però sconsiglia come briglie severe e potenzialmente dannose.

Perché, come dice l’Arcamone, bisogna avvalersi “più tosto delle briglie dolci e leggiere che delle aspre e gagliarde” [40]. Aurea massima (peraltro enunciata da tutti i trattatisti del­l’epoca), che dovrebbe in qualche misura rassicurare i lettori odierni preoccupati dall’aspetto intimidente delle briglie di quei tempi.

Nella parte IV, infine, si passano in rassegna le difese e si indica per ciascuna di esse la briglia adatta: del che, come abbiamo visto, se ne sarebbe già parlato nelle parti precedenti (nella III, soprattutto, dove si passano in rassegna le briglie e per ciascuna di esse si indica la difesa cui si applica). Però – dice l’Arcamone – data l’inerente difficoltà della materia, repetita iuvant :

Perciò m’ha parso più volte replicare le cose antedette, acciò restino bene impresse nella me(n)te del lettore, benché legerle e non legerle restarà in potestà sua, avvalendosi di quella parte over del tutto come meglio a lui piacerà e li sarà grato e di sodisfattione, pigliando da me solo la buona volontà [41].

Andiamo dunque a vedere cosa si dice qui dei piumaccioli.

A cavalli che fanno piumaccioli si rimediarà facilmente con l’imboccature a scaccie che tengono il profilo dalla parte di sotto, e con scaccie a bastonetto con bottoni incastrati, o con meloni che tengono li falletti fra le guardie et essi meloni, et in ultimo con pera, campanelli e simili, quali dovranno tenere li falletti fra le guardie et esse pera e campanelli [42].

Le quali briglie sono quelle già indicate nella III parte per risolvere i piumaccioli: scaccie profilate, meloni e peri col falletto strategicamente posto etc. (omette l’armamentario più rischioso, citato nella III parte ma sconsigliato: peri e campanelli doppi, imperiale etc.) La puntuale ripetizione ci conferma come il trattato dell’Arcamone, pur nella sua brevità, abbia una struttura precisa e meditata.

Che cosa dire in conclusione?

L’opera dell’Arcamone – riferendoci all’unica data che abbiamo a disposizione, il 1627 della stampa – appartiene a un momento crepuscolare. Il 1602, data di pubblicazione di quel Cavallo frenato di Pirro Antonio Ferraro che segna il culmine della riflessione cinquecentesca su arte equestre in generale e teoria dell’imbrigliare in particolare, è anche la data di pubbli­cazione del Cavalerice di Salomon de La Broue [43] : segna insomma il passaggio del testimone dai grandi cavallerizzi italiani ai grandi écuyers francesi.

Il Discorso è un’opera breve e semplice, senza pretese di originalità né intenti polemici. All’inizio del trattato l’autore dichiara:

E quantunque molti cavallieri e mastri di questa [cioè dell’arte dell’imbrigliare] n’habbiano scritto con grande eccellenza, tuttavolta, se quantunque minimo et inferiore di tutti, ho preso questo ardire volerne scrivere alcune cose in somma e brevità, con ordine continuato, più per ramentare a me stesso quello che sopra ciò è necessario haver mira e consideratione, che per volerne instruire altri. Tuttavolta, per beneficio degli altri, m’ha parso nel presente discorso annotare quello che sopra di ciò per lunga prattica ho esperimentato, e da’ miei maggiori ho imparato, e lasciare in arbitrio di qualsivoglia volersene avvalere, se vi trovarà cosa di buono [44].

Il che non è solo quella dichiarazione di modestia che le regole della retorica vogliono premessa a ogni trattazione, è anche una veritiera descrizione di quello che sarà il tenore dell’opera.

Il trattato dell’Arcamone, che si basa su nozioni ed esperienze meditate (non ne abbiamo parlato, ma si potrebbe dimostrare che l’Arcamone ha letto e studiato con cura gli autori precedenti), con la sua struttura consistente, con le classificazioni incrociate tra una parte e l’altra, come abbiamo visto, è leggibile e consultabile rapidamente e proficuamente.

È, insomma, un piccolo manuale ben fatto, che rende onore all’autore.

 

 

Firenze, 13 settembre 2022

Patrizia Arquint

 

* Ringraziamenti: Luciano Carcereri, Ettore d’Alessandro, Katiuscia Di Rocco, Vincenzo Mario Lombardi, Daniela Pellegrino.

[1] Federico Grisone, Ordini di cavalcare, Napoli, Suganappo, 1550; Pirro Antonio Ferraro, Cavallo frenato, Napoli, Pace, 1602.

[2] Alessandro Massari, Compendio dell’heroica arte di cavalleria, Venezia, a istanza di Francesco Bolzetta libraro in Padova, 1599; Alessandro Massari Malatesta, Della ragione e modi d’imbrigliar cavalli, Roma, Stefano Paolini, 1613; Giovanni di Gamboa, La raggione dell’arte del cavalcare, Palermo, Gio. Antonio de’ Franceschi, 1606; Lorenzino Palmieri, Perfette regole et modi di cavalcare, Venezia, Barezzo Barezzi, 1625; Giovanni Paolo d’Aquino, Dell’uso del piliere, dialoghi, Vicenza, eredi di Dominico Amadio, 1630.

[3] Di Valerio Piccardini si sta occupando Elisabetta Deriu: cfr. Elisabetta Deriu, Piccardini, Valerio, in Great Books on Horsemanship. Bibliotheca Hippologica Johan Dejager, Leida, Brill-Hes & De Graaf Publishers, 2014; pp. 428-431.

[4] Bari, Biblioteca Nazionale “Sagarriga Visconti Volpi”, ms. I/17 (da qui in avanti BNB I/17).

[5] Camillo Minieri Riccio, Notizie biografiche e bibliografiche degli scrittori napoletani fioriti nel secolo XVII [i cognomi dei quali cominciano con la lettera A], Milano-Napoli-Pisa, Ulrico Hoepli, 1875.

[6] Jean George Théodore Graesse, Trésor de livres rares et précieux, Dresde, Rudolf Kuntze, 1859-69; Jacques Charles Brunet, Manuel du libraire et de l’amateur de livres, Paris, Firmin Didot, 1860-65; voll. 6.

[7] Cfr. Raffaele D’Addosio, 340 illustri letterati ed artisti della provincia di Bari. Da un calendario per l’anno 1894, Bari-Avellino, 1894 [ristampa facs. Sala Bolognese, A. Forni, 1976]; Antonio Caterino, La Puglia nella storia della stampa: secc. XVI-XVIII, Bari, Cressati, 1961; Beniamino D’Amato, Le edizioni pugliesi dal 1535 al 1799. Saggio bibliografico, Grumo Appula (Bari), a cura dell’Amministrazione comunale, 1987 (Luciano Carcereri, c. p.)

[8] Grazia Distaso, Variazioni e maniere nel territorio delle lettere, in Storia di Bari nell’Antico Regime, a cura di A. Massafra-F. Tateo, t. II, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 153-192. La menzione dell’Arcamone è a p. 167.

[9] Grazia Distaso, cit., p. 167 in nota.

[10] Assente anche dal repertorio del Piantanida, nel frattempo pubblicato (Sandro Piantanida, Lamberto Diotallevi, Giancarlo Livraghi (a cura di), Autori italiani del ’600, Milano, Libreria Vinciana, 1948-1951.

[11] Pirro Antonio Ferraro, Cavallo frenato, cit.

[12] Lucio Lami, L’arte equestre, invenzione italiana tipicamente rinascimentale, in “L’Esopo: rivista trimestrale di bibliofilia ”, XIX (1997) n. 69-70, marzo-giugno, pp. 23-40. Menzione dell’Arcamone a p. 36: “nelle storie dell’arte equestre”, nostra correzione su “nelle storia dell’arte equestre”.

[13] Dal 1622 al 1656: cfr. Lorenzo Baldacchini, Giovanni Bernardino Desa, in Dizionario Biografico degli italiani, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1960 ss.; vol. XXXIX (1991) (Il Desa fu uno stampatore pugliese, attivo fino al 1597, i cui caratteri tipografici sarebbero poi stati rilevati dal Valeri.)

[14] Federico Grisone, Ordini di cavalcare, cit.; Cesare Fiaschi, Trattato dell’imbrigliare, maneggiare et ferrare cavalli, Bologna, Giaccarelli, 1556; Pirro Antonio Ferraro, Cavallo frenato, cit.

[15] BNB I/17, c. 1r.

[16] Giovanni Beltrani, Lorenzo Valerii tipografo romano in Puglia durante il secolo XVII, Trani, V. Vecchi, 1892. Ringrazio Daniela Pellegrino (responsabile della Biblioteca Comunale “Giovanni Bovio” di Trani) che mi ha fornito fotocopie del Beltrani.

[17] Daniela Pellegrino ( responsabile della Biblioteca Comunale “Giovanni Bovio” di Trani) ha interpellato in materia Luciano Carcereri (funzionario, ora in quiescenza, della Biblioteca Nazionale “Sagarriga Visconti Volpi” di Bari). Ringrazio ambedue.

[18] http://www.famigliadalessandro.it/equestre2.html (12-09-2022).

[19] Federico Grisone, Ordini di cavalcare, cit. (qui nelle edizioni Venezia 1571 e Venezia 1620); Claudio Corte, Il cavallarizzo, Venezia, Giordano Zilletti, 1562; Pasquale Caracciolo, La gloria del cavallo, Gabriel Giolito de’ Ferrari, 1566 (qui nell’edizione Venezia 1589), Pirro Antonio Ferraro, Cavallo frenato, cit. (qui nell’edizione Venezia 1620).

[20] Ettore d’Alessandro (discendente dei duchi di Pescolanciano), c. p.

[21] Vincenzo Mario Lombardi (direttore ad interim dell’Archivio di Stato di Isernia), c. p. Ringrazio Katiu­scia Di Rocco (direttrice della Biblioteca Pubblica Arcivescovile “Annibale De Leo” di Brindisi), che ha fatto ricerche nella sua biblioteca e mi ha indirizzata all’Archivio di Stato di Isernia.

[22] Giuseppe d’Alessandro duca di Pescolanciano, Pietra paragone de’ cavalieri, Napoli, Domenico-Anto­nio Parrino, 1711. Nuova edizione postuma in Opera di D. Giuseppe d’Alessandro duca di Peschiolanciano […] data in luce da D. Ettorre d’Alessandro, duca di Peschiolanciano, figlio dell’autore, Napoli, Antonio Muzio erede di Michele Luigi, 1723.

[23] Giuseppe d’Alessandro duca di Pescolanciano, Pietra paragone de’ cavalieri, cit., p. 335.

[24] Pietro Sisto, I libri, le biblioteche e i cavalli del re, in Claudia Corfiati, Mauro de Nichilo (a cura di), Biblioteche nel Regno fra Tre e Cinquecento. Atti del Convegno di Studi Bari 6-7 febbraio 2008, Lecce, Pensa Multimedia, 2009; pp. 265-279. Menzione dell’Arcamone a p. 272.

[25] http://www.bibliotecanazionalebari.beniculturali.it/images/documentipdf/discorso_sopra_limbrigliare_ cavalli.pdf (12-09-2022).

[26] BNB I/17, c. 2r-v.

[27] Dati del codice da una scheda stilata da Luciano Carcereri e fornitami dalla Biblioteca Nazionale “Sa­garriga Visconti Volpi” di Bari.

[28] BNB I/17, c. 60r-v.

[29] BNB I/17, cc. 44v-45r.

[30] BNB I/17, c. 3v.

[31] BNB I/17, c. 4r-v.

[32] BNB I/17, c. 5r.

[33] BNB I/17, c. 6v

[34] BNB I/17, c. 8r.

[35] Piumaccioli, come primo significato, è ‘cuscinetti’.

[36] BNB I/17, c. 5r.

[37] BNB I/17, c. 16r.

[38] BNB I/17, c. 15r.

[39] Federico Grisone, cit.; Cesare Fiaschi, cit.; Pirro Antonio Ferraro, cit.

[40] BNB I/17, c. 6r.

[41] BNB I/17, c. 46r.

[42] BNB I/17, c. 55v.

[43] Salomon de La Broue, Le cavalerice françois, Paris, Abel l’Angelier, 1602.

[44] BNB I/17, cc. 2v-3r.

 

Italie Renaissance colloques Études commentées